By Borissa on 01/06/2016
Tutti i lunedì il Faqtotum Lab organizza una proiezione di un film d’autore.
Il prossimo appuntamento è con il film Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza di Roy Andersson.

Due venditori di denti da vampiro e maschere di carnevale ci guidano attraverso trentanove quadretti di vita, morte, miseria e sciocchezze del quotidiano, tra riflessione filosofica e scherzo beffardo.
Una carriera rarefatta quella di Roy Andersson, cominciata nei primi Settanta sulla scia dell’infatuazione per la nouvelle vague cecoslovacca e proseguita nei decenni per lo più al servizio di spot pubblicitari, prima di arrivare alla Living Trilogy di terzo millennio: una trilogia di lungometraggi che in A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence trova il suo apice e compimento. L’ironia corrosiva del regista, figlia in egual misura dei Monty Python, di Kaurismaki e di un gusto per il nonsense tipicamente scandinavo, si mescola a una ricerca visiva sempre più stimolante. L’utilizzo del digitale, infatti, consente di introdurre ancor più elementi surreali nei tableaux vivants tipici del regista: l’armata di Carlo XII che si ferma a un bar per una birra, un esercito coloniale che si serve di schiavi neri per alimentare un curioso marchingegno, una scimmietta usata come cavia per scopi ignoti (ma con ogni probabilità privi di senso). Una distorsione della realtà che porta l’immaginario artistico di riferimento più dalle parti di Otto Dix che da quelle di Bruegel il Vecchio, che è ancora una volta ispirazione originaria (dal suo I cacciatori nella neve, infatti, deriva l’immagine dei piccioni che osservano l’inutile affanno del genere umano, placidamente poggiati su un ramo).
In 39 piani sequenza in cui si ride amaro, Andersson riesce a convogliare altrettante riflessioni semiserie sulla mortificazione dell’esistenza quotidiana, sul cumulo di assurdità a cui l’essere umano si sottopone per convenzione o presunto interesse, senza più essere in grado di porsi il quesito fondamentale sulle ragioni del proprio intento originario. Trait d’union ideale il duo di venditori di scherzi di carnevale, coppia slapstick tra Don Chisciotte e Sancho Panza e Laurel e Hardy, incarnazione del disperato bisogno di divertimento odierno e dell’assoluta incapacità di godere dello stesso. Ma soprattutto icone tragicomiche della condizione ineluttabile di venditori porta a porta (oltre che di se stessi) a cui la società del marketing imperante sembra aver condannato l’umanità intera. Un maestro dell’assurdo che aspetta beckettianamente la sua meritata consacrazione.
Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza
Un film di Roy Andersson. Con Holger Andersson, Nisse Vestblom, Lotti Törnros, Charlotta Larsson, Viktor Gyllenberg.
Titolo originale En Duva Satt På En Gren Och Funderade På Tillvaron. Commedia drammatica, durata 100 min. – Svezia 2014.
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By Borissa on 24/05/2016
Tutti i lunedì il Faqtotum Lab organizza una proiezione di un film d’autore.
Il prossimo appuntamento è con l’ultimo film di Yorgos Lanthimos, The Lobster.

In un futuro prossimo e immaginario essere single oltre una certa età è vietato, pena l’arresto e la deportazione in un grande hotel nel quale si è obbligati a trovare l’anima gemella in 45 giorni di tempo, tra punizioni e questionari assurdi. Uomini d’affari, professionisti, donne in carriera e individui meno realizzati tutti insieme sono costretti a cercare un affiatamento possibile perchè se non dovessero trovarlo nel mese e mezzo a disposizione saranno trasformati in un animale a loro scelta.
Appena fuori dall’hotel c’è un bosco dove si trovano i ribelli, individui fuggiti dall’hotel che vivono liberi e single a cui non è concesso di stare con nessuno. Il protagonista passerà prima nel grande hotel senza trovare quell’amore obbligatorio che troverà in mezzo ai ribelli, là dove non è consentito.
Cosa succederebbe se potessimo andare in deroga ad alcune fondamentali regole sociali? Quante delle strutture, delle convenzioni e delle ipocrisie che il vivere in una società ci impone rimarrebbero tali e quanto invece potremmo sviluppare forme d’interazione nuove? Yorgos Lanthimos sembra chiederselo in ognuno dei suoi film e la risposta che si dà oscilla costantemente tra il pessimistico e il grottesco: non molto cambierebbe, nemmeno una revisione degli assunti di base può salvare l’uomo da se stesso.
La famiglia di Dogtooth che cresce i figli lontano da tutto e tutti, mentendogli costantemente per creare una bolla intorno a loro, come il nucleo di attori che impersonano i cari estinti dei loro clienti in Alps non sono troppo lontani da questi single che hanno passato i quarant’anni, sono soli e hanno effettivamente poco tempo davanti a sè per trovare qualcuno prima di regredire allo stato animale.
Dunque c’è di nuovo un mondo a parte, ai confini della società reale (che non vediamo praticamente mai), uno in cui le persone non si comportano più come ci aspetteremmo perchè qualcuno li ha costretti a privarsi di alcune nozioni fondamentali. In questa maniera The Lobster rende esplicito il dilemma di chi, nel mondo occidentale, ritrovandosi “scoppiato” oltre una certa età sente di avere poco tempo e ha la percezione di dover correre per rimettersi in pari con il modello imperante, con ciò che tutti gli altri si aspettano da lui.
Attraverso la struttura di un film di fantascienza (da una parte c’è una tirannia che impone ritmi di vita alienanti e punizioni esemplari, dall’altra un gruppo di ribelli che vive nei boschi) The Lobster racconta con una metafora a maglie larghissime la maniera in cui la ricerca di una persona con cui vivere oltre una certa età passi attraverso riti comuni, strutture predisposte ad hoc, incontri programmati e una serie di “regole” che danno la misura dell’affiatamento. I grotteschi interessi in comune che il protagonista condivide con quelle che, di volta in volta, possono essere sue possibili amanti, la scansione degli incontri, il rituale dell’accoppiamento grottesco e l’odio condiviso per chi sembra meno in grado di riuscire ad accoppiarsi, appaiono stavolta come una versione pompata e incattivita delle reali dinamiche sociali. Anche la violenza onnipresente, spietata, brutale e insensibile sembra una versione concreta di quella più sottile violenza psicologica operata dal condizionamento sociale.
Nel cinema stralunato di Lanthimos, spesso così intricato, denso e convulso da essere difficilmente penetrabile, le domande sono sempre le migliori e più giuste da porsi oggi ma gli obiettivi da colpire sono sempre molti e sotto l’ombrello di questa paradossale ricerca di un’anima gemella per non diventare un animale sembrano rientrare diverse altre idee, nessuna delle quali però davvero centrata quanto la principale. Non è difficile leggere nel film anche una certa sfiducia nell’organizzazione sociale contemporanea o una rappresentazione della mercificazione dei sentimenti da parte di tutte le istituzioni che si propongono come coagulanti nella ricerca di un altro individuo da amare, ma forse, proprio nel grande affresco, nella molteplicità di letture e nel desiderio di realizzare un film dai molti livelli di lettura, il film fallisce.
Influisce inoltre ben poco il fatto che stavolta il regista greco abbia a disposizione un cast internazionale di nomi noti. Lo stile distante, asettico e impenetrabile della recitazione rimane infatti lo stesso di sempre, semmai è il senso di sfasamento metacinematografico dato dalla presenza di volti commerciali in un’impresa così distante dallo stile più immediato e comprensibile a creare un piccolo salto di senso, confermando l’idea alla base del film, quella di un mondo parallelo in cui ciò che conosciamo non agisce o reagisce come penseremmo.
The Lobster
Un film di Yorgos Lanthimos. Con Colin Farrell, Rachel Weisz, Jessica Barden, Olivia Colman, Ashley Jensen. continua»
Titolo originale The Lobster. Fantascienza, Ratings: Kids+13, durata 118 min. – Grecia, Gran Bretagna, Irlanda, Paesi Bassi, Francia 2015. – Good Films
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By Borissa on 17/05/2016
Tutti i lunedì il Faqtotum Lab organizza una proiezione di un film d’autore. Il quarto appuntamento è con El botón de nácar (La memoria dell’acqua) di Patricio Guzmán. 2015

Da un parallelepipedo di quarzo, che contiene al suo interno dell’acqua che risale a millenni fa, si prendono le mosse per riflettere sull’elemento liquido che sta alla base della vita nell’universo e che consente di parlare della storia passata e più recente del Cile.
Patricio Guzmán ci propone con questo suo documentario una lettura che prende le mosse da uno dei quattro elementi primigeni analizzato nella sua fondamentale rilevanza per la formazione delle culture. Ciò che più gli sta a cuore è rileggere la Storia della sua terra, il Cile, che è il più vasto arcipelago nel mondo con 2.670 km di coste. Per farlo parte da lontano, dalla preistoria addirittura e da una scienza che proprio in Patagonia trova il terreno fertile di esplorazione: l’astrofisica. Il suo obiettivo però si manifesta, progressivamente e in una sorta di cerchi concentrici rovesciati rispetto a quelli prodotti dal lancio di un sasso nell’acqua. Perché se quelli manifestano una tendenza centrifuga Guzmán si rivela interessato esattamente al suo opposto.
Perché intorno all’acqua i nativi avevano costruito la loro civiltà che i conquistadores bianchi si sono premurati di estirpare tanto che oggi di essi restano solo 20 discendenti che conservano un ricordo della cultura primigenia. Ma ciò che finisce con il costituire il motore di questo intrigante documentario è ancora una volta il bisogno di non cancellare il ricordo di un eccidio più recente: quello del regime di Pinochet perpetrato nei confronti di cittadini inermi colpevoli solo di essere considerati’comunisti’ perché oppositori di un dittatore. È stato ancora una volta l’Oceano a divenire sepolcro di innumerevoli desaparecidos lanciati dai velivoli affinché i familiari non potessero avere neppure una tomba per piangerli. Un bottone di perla trovato nei suoi fondali può allora costituire una testimonianza preziosa: l’occasione per non dimenticare.
El Botón De Nácar (La memoria dell’acqua)
Un film di Patricio Guzmán. Documentario, durata 82 min. – Cile, Francia, Spagna 2015.
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By Borissa on 11/05/2016
Tutti i lunedì il Faqtotum Lab organizza una proiezione di un film d’autore. Il terzo appuntamento è con ““Tekkonkinkreet – Soli contro tutti”

Nella babilonica Takaramachi (città-tesoro) luogo sovraccarico di idoli, sovrapposizione di percorsi, di costruzioni e oggettistica di ogni tipo, vivono due ragazzini di strada, probabilmente orfani: Bianco e Nero, rispettivamente 11 e 14 anni. I due sono conosciuti nella città come “neko”, gatti, e in effetti sin dalle prime battute del film si spostano con balzi iperbolici da un edificio all’altro schizzando via e atterrando ovunque da altezze elevatissime. Le scene d’azione ci danno immediatamente la sensazione di che posto sia la Takaramachi, e di come i due fratelli siano a loro agio nel labirintico intrico di pericoli di questo caos urbano che in qualche modo li ha generati. I due vivono in un relitto di macchina abbandonata, in una zona desolata della città, senza particolari obblighi. In città sono però in arrivo grandi cambiamenti. La polizia è in allerta per il ritorno del vecchio yakuza “il Topo”, che però è un malavitoso vecchio stile nichilista e romantico, figlio della città come Bianco e Nero, che non ne sopporta le pericolose inclinazioni verso un sistema mafioso di tipo imprenditoriale-capitalistico, e vi si oppone fino all’autodistruzione. Il viscido Serpente è infatti il capo di un organizzazione senza scrupoli che vuole trasformare Takaramachi in un enorme parco giochi, in un luna park scintillante uccidendone la storia e i vissuti quotidiani intrisi nelle strade di città-tesoro (Takaramachi). Nero e Bianco riescono a difendere il loro equilibrio e quello della città finquando il serpente non assolda tre killer professionisti. In un violento scontro con uno dei tre Bianco viene ferito a morte e Nero decide di lasciare che la polizia lo protegga. Ma proprio l’assenza del piccolo fa impazzire il fratello maggiore, che seguendo il destino scritto nel nome che porta cade in un abisso di oscurità, sfogando la sua demoniaca violenza su tutto e tutti. Quando la città è sull’orlo del collasso, sopraffatta da tanta violenza, sarà Bianco a ribilanciare le energie. In un finale travolgente le immagini e i colori di Bianco escono fuori dalla sua mente per sublimare tutta la violenza di nero e tutto il dolore passato in un cielo dai colori pastello. Figli del caos, i due ragazzini rappresentano lo yin e lo yang. Nero è la parte più forte, l’adulto. Bianco è il bambino, lo stupore innocente e poetico della vita. Sciolte le metafore a priori il film si snoda quasi nella memoria dello spettatore, i due sono familiari come familiare è la città e il tempo in cui è contestualizzata la storia. L’ambivalenza dell’essere umano nel divenire, nell’essere contaminato e in continuo mutamento. Tutto ci appartiene e siamo proiettati nella violenza e nella vendetta, come nei disegni infantili che dando ritmo al film ci inondano gli occhi per un qualche misterioso motivo
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